Persiste da mesi nel Mediterraneo una situazione tragica a livello umano e politico, che pone inevitabilmente l’Italia nell’esigenza di fronteggiare in tempi rapidi un’emergenza data dal peculiare status di Paese euro mediterraneo.
Le rivolte maghrebine hanno probabilmente contribuito nell’ultimo periodo a risvegliare, nella politica italiana, lo spettro dell’immigrazione, come problema di tipo prioritario, più volte fatto oggetto di campagna elettorale e più volte minacciato da fenomeni più o meno contingenti che riproponevano il tema dell’accettazione e dell’accoglienza delle persone migranti dai Paesi del nord Africa.
Fino alle ultime vicende. Dalla Libia alla Tunisia. E allo scontro che quest’ultima ci procura con i cugini d’oltralpe.
Come è noto, questi giorni vedono i ministri degli Interni italiano e francese sfidarsi in un aspro dibattito circa le posizioni assunte dai due Paesi relativamente all’accoglienza da offrire agli immigrati tunisini.
Il problema che sta a monte è rappresentato dalla decisione italiana di concedere un permesso di soggiorno temporaneo ai ventimila tunisini presenti in Italia, consentendo loro di muoversi agevolmente all’interno dell’area di Schengen.
Ma cosa prevede l’accordo di Schengen? Perché l’Italia pensa che appellarsi ad un principio di libera circolazione possa tirarla fuori da una situazione scomoda politicamente e geograficamente?
L’accordo di Schengen nasce come una convenzione siglata inizialmente nel 1985 da soli cinque Paesi facenti parte l’Unione europea: Belgio, Lussemburgo, Paesi Bassi, Francia e Germania. Nel 1990 vennero poi meglio definite le condizioni di applicazione entrando pienamente in vigore solo nel 1995. L’accordo venne poi integrato nel quadro giuridico istituzionale dell’Unione europea in virtù di un protocollo allegato al Trattato di Amsterdam e venne da quel momento esteso a tutti gli altri Stati dell’Unione e a Paesi terzi ugualmente interessati, come Islanda, Norvegia e Svizzera.
La ragion d’essere della convenzione deve essere ricercata nella presa di coscienza di una realtà internazionale mutata nel tempo. Di un’Europa che si accinge a divenire non più alleata dal solo punto di vista economico e commerciale, bensì uno spazio multiculturale, difficilmente arginabile dietro un muro di barriere interne. Ed è nella consapevolezza di ciò che i cinque paesi promotori definiscono le condizioni di applicazione e di garanzie al fine di agevolare una libera circolazione delle persone all’interno di una zona più comunemente descritta come lo spazio di Schengen. Appellandosi dunque ad una parte fondamentale del Trattato che istituisce le Comunità europee, completato dall’Atto unico europeo, si giunge alla volontà comune nel voler creare uno spazio privo di frontiere interne, prevedendo all’interno dell’accordo, che esse possano essere attraversate in qualunque luogo senza che venga effettuato alcun controllo sulle persone.
Pur prevedendo, nel medesimo articolo, la possibilità che un Paese possa, in un determinato periodo e per esigenze di sicurezza nazionale, sospendere gli accordi presi tornando ad adottare le misure necessarie per fronteggiare una situazione concretamente delicata, informandone in tempi rapidi le parti contraenti.
Va da sé che, nel pieno caos dell’immigrazione sfociata dalle terribili guerre che sovrastano il Nord Africa, con un incontenibile flusso di immigrati tunisini e libici che arrivano alle nostre coste, e con un’Europa che tarda a dare risposte concrete, l’Italia si trova nella scomoda situazione di chi sente di dover giungere ad una decisione rapida anche in considerazione dei rapporti internazionali creati nel tempo con i Paesi nord africani. E se da una parte la situazione libica calca un territorio più impervio, dettato anche dai recenti accordi di amicizia e partenariato con l’attuale nemico Gheddafi, l’immigrazione che arriva dalla Tunisia ci fa giungere ad un duro scontro diplomatico e internazionale con gli altrettanto interessati francesi, e con la stessa Unione europea.
E’ di recente data l’accordo siglato dal ministro Maroni con le autorità tunisine. Accordo che, prevedendo da un lato una collaborazione nell’arginare i potenti flussi migratori alla base, ci vede impegnati nella decisione di elargire un permesso di soggiorno della durata di sei mesi a tutti i tunisini presenti in Italia fino al momento della firma dell’intesa. Per coloro che arriveranno invece sulle coste da questa data in poi scatterà automaticamente la procedura di rimpatrio. Perché questa decisione?
Perché il governo italiano, probabilmente in un attimo di eccessiva estensione delle interpretazioni possibili degli accordi europei, spera di riuscire in questo modo ad ottenere un coinvolgimento forzato degli altri Paesi dell’Unione (Francia in testa) nel dover accogliere ciascuno un certo numero di immigrati tunisini. Ed il legame che storicamente lega la Tunisia allo stato francese giustifica una certa preoccupazione nelle autorità d’oltralpe. Eliminato un problema di tipo logistico come la lingua e, data l’abbondante comunità tunisina presente in Francia, Sarkozy rifiuta categoricamente di attribuire al provvedimento italiano una validità internazionale. Mentre dunque l’Italia offre ai tunisini, attraverso una carta di soggiorno, la possibilità di circolare liberamente all’interno dello spazio di Schengen, la Francia, appellandosi all’art. 5 del medesimo accordo, chiarisce come un’interpretazione simile fuoriesca dalle disposizioni ivi presenti.
L’articolo 5 del Trattato prevede, infatti, che per un soggiorno non superiore ai tre mesi, l’ingresso nel territorio delle parti contraenti possa essere concesso allo straniero che soddisfi una serie di requisiti: a) essere in possesso di uno o più documenti di viaggio validi o di un visto valido, se viene richiesto, in base al Paese di provenienza; b) esibire, se necessario, i documenti che giustificano lo scopo e le condizioni del soggiorno previsto; c) disporre dei mezzi di sussistenza sufficienti sia per la durata prevista del soggiorno sia per il ritorno nel Paese di origine o per il transito verso un Paese terzo nel quale l’ammissione è garantita; d) non essere segnalati nel Sis, il Sistema di informazioni di sicurezza, né essere considerati una minaccia per l’ordine pubblico, la sicurezza interna, la salute pubblica o le relazioni internazionali di uno degli Stati membri dell’accordo.
Ma è il comma due dello stesso articolo che contribuisce a delegittimare la decisione italiana nei confronti del resto dei Paesi Schengen. La previsione secondo la quale l’ingresso nel territorio delle Parti contraenti deve essere rifiutato allo straniero che non soddisfi tutte queste condizioni, a meno che una Parte contraente ritenga necessario derogare a detto principio per motivi umanitari o di interesse nazionale ovvero in virtù di obblighi internazionali. In tale caso, l’ammissione sarà limitata al territorio della Parte contraente interessata che dovrà avvertirne le altre Parti contraenti,, mette chiaramente in luce i dubbi circa l’effettiva efficacia delle disposizioni italiane all’interno degli altri Stati europei.
Evidente pertanto un largo contrasto tra le posizioni assunte dai due Paesi. Da un lato Maroni vede nell’atteggiamento francese una seria violazione del principio di libera circolazione alla base dell’accordo di Schengen e pretende una collaborazione seria dalla Francia e dalla stessa Europa, affinché attui il prima possibile le previsioni raccolte nel punto 5 approvato nel corso del Consiglio GAI dell’11 aprile scorso relativamente alle operazioni di pattugliamento per favorire lo stop all’afflusso di profughi.
Dall’altro la Francia sottolinea come il provvedimento emanato non tenga conto degli altri requisiti aggiuntivi rispetto al solo possesso del permesso di soggiorno, ed ugualmente previsti nell’accordo di Schengen. E che quindi debba esser considerato un atto dalla mera validità interna, neanche potenzialmente riconducibile al rispetto dei principi di collaborazione e di libera circolazione posti a fondamento dei trattati europei.
Il problema rimane però giuridico. Nonostante sia giunto, in ritardo rispetto alle aspettative italiane, l’intervento del commissario europeo per gli Affari interni, Cecilia Malmstrom e quello dello stesso Presidente della Commissione europea, Barroso, circa la volontà di giungere ad una azione comune da intraprendere per la soluzione congiunta del problema, gli altri Paesi europei non sembrano muoversi nella medesima direzione. L’obiezione comune non sembra riguardare propriamente la convinzione che il tema dell’immigrazione tunisina possa (o debba) essere un problema unicamente italiano, ma verte piuttosto sulla dubbia validità del documento emesso dal governo italiano in ambito internazionale.
Infatti non si mette in dubbio la qualità politica di una scelta siffatta. Essa, nel ristretto ambito italiano, poggia legittimamente sulla base di una legge del 1988 [http://www.camera.it/parlam/leggi/98040l.htm] che regola l’immigrazione in Italia e che prevede che, di fronte ad eventi di eccezionale gravità, si possa concedere un permesso di soggiorno per motivi umanitari a chi è entrato nel territorio nazionale. Ma la situazione di emergenza invocata dal governo, sebbene potenzialmente legittima, sembra scontrarsi duramente con la più rigida interpretazione di Schengen di tutti gli altri Stati europei.
Come primo diretto interessato la Francia non cede nella difesa di quelle che ritiene legittime prerogative e continua a battersi nella difesa di esse. Esternamente, giungendo addirittura alla sospensione del traffico ferroviario al confine con Ventimiglia, in modo da arginare ulteriori arrivi indesiderati. Ed internamente, facendo leva sul malcontento popolare e sulla possibilità che una situazione del genere arrivi ad alimentare posizioni politiche che danno voce ad intolleranze sociali ed idee antieuropeiste. Risale a questi giorni, infatti, l’ultima esternazione dell’esponente dell’estrema destra francese, Marine Le Pen, con la quale si propone la sospensione dello spazio di Schengen, come unica soluzione ideale ad arginare il fenomeno dei flussi di immigrati diretti in Francia per richiedere il ricongiungimento familiare.
E parole di una simile portata riecheggiano anche in territorio italiano, dove il malcontento del ministro Maroni porta a chiedere quanto effettivamente convenga all’Italia rimanere nell’ambito europeo.
Sono posizione estreme, senz’altro dettate dall’urgenza che una problematica di tanta portata richiede nella ricerca di una soluzione comune. Ma che inevitabilmente portano a galla i dubbi circa le difficoltà pratiche di una tenuta comune in ambito europeo.
Ad oggi, la decisione del Presidente Berlusconi e del suo ministro Maroni sembrerebbe esser stata recepita anche dagli organi stessi dell’Unione europea, i quali, anche in attesa del vertice Berlusconi-Sarkozy del 26 aprile, auspicano il rispetto del concetto di fiducia degli Stati membri.
Ma le piogge di critiche sull’incerta gestione di un problema di larga rilevanza illustrano grottescamente l’assenza di una politica comune e l’incapacità sostanziale nell’arginare le emergenze con regole condivise ed omogeneità d’azione.
E questa manifesta incapacità potrebbe fortemente incidere sul destino dell’Unione europea. La sfiducia dei singoli Stati si è più volte palesata in passato, fino ad arrivare alla mancata ratifica di una Carta costituzionale europea. Un episodio significativo che contribuisce a sottolineare come con ogni probabilità ogni Stato europeo sente la necessità di mantenere, in determinati casi, un’identità singolare, nella difesa delle proprie prerogative individuali e, ancora più probabilmente, del proprio elettorato interno.
E soprattutto non va dimenticato che a livello europeo più volte in passato sono state espresse valutazioni complessive dei rapporti fra l’Unione e gli Stati del bacino del Mediterraneo, ipotizzando, già a partire dagli anni ’70 l’avvio di politiche organiche di più ampio respiro con i Paesi dell’area.
Fino a giungere il 13 marzo 2008 all’Unione per il Mediterraneo, promossa dal Consiglio europeo e istituita in occasione del vertice di Parigi del luglio dello stesso anno. E che rappresenta il tentativo di istituzionalizzare un processo iniziato con la Conferenza di Barcellona del 1995, allo scopo di rinsaldare il partenariato euro-mediterraneo in una serie di settori molto delicati: controllo dell’immigrazione, lotta al terrorismo, tutela dell’ambiente e promozione dello sviluppo economico.
L’atteggiamento incerto delle istituzioni europee potrebbe pertanto rinsaldare vecchi malumori, dissipare sfiducia aggiuntiva nei soggetti già palesemente scettici e creare le condizioni per una caduta di immagine nei rapporti internazionali, rischiando di giungere al pericolo motivato di dover arginare due gravi conseguenze: una perdita interna in tema di coesione, ed una esterna quanto a credibilità.