Fonte: “Affari Internazionali”
Lo studio “Economia e industria della Difesa” recentemente pubblicato dallo Iai merita un esame attento, poiché evidenzia un rischio che non può non preoccupare: quello di un costante deterioramento dello strumento militare italiano.
La questione non è tanto di quantità, ma di qualità. Per chiunque operi nel settore, qualità significa equilibrio nella tipologia della spesa: acquistare il più moderno sistema di comunicazione, il migliore e più aggiornato velivolo da combattimento, l’unità navale meglio dotata di sistemi per la lotta sopra e sotto la superficie del mare, può essere un modo ottimo, oppure pessimo, di spendere i denari del contribuente.
Ciò a seconda della congruenza dei sistemi con lo strumento militare nel suo complesso e con il livello di ambizione ad esso sotteso e della capacità di mantenerlo in adeguato stato di prontezza, per poterlo utilizzare con efficacia nel momento in cui se ne dovesse presentare la necessità.
Squilibrio stridente
Con queste premesse, il giudizio sul bilancio della difesa negli ultimi esercizi finanziari non può che essere: “pochi soldi, che potrebbero essere spesi meglio”. Analizzando infatti la struttura del bilancio si nota un divario stridente, ben messo in evidenza dallo studio dello Iai, rispetto alla composizione universalmente riconosciuta come ottimale: il 50% per le retribuzioni, e il restante 50% diviso equamente tra spese di ammodernamento (acquisizione di nuovi sistemi) ed esercizio (addestramento, manutenzione, ricambi, carburante e quant’altro).
Le cifre del bilancio italiano sono invece molto diverse e indicano una situazione che non è azzardato definire patologica. La tabella 20 dello studio dello Iai, ci dice che, tenuto conto dei fondi per le missioni operative, una parte dei quali finanzia attività imputabili all’esercizio, e dei fondi per le acquisizioni messi a disposizione dal ministero dello sviluppo economico, l’Italia spende per il personale il 60% del bilancio, per l’ammodernamento il 26,5%, mentre all’esercizio resta un magro 12,5%.
In altre parole, abbiamo troppo personale, malamente distribuito per gradi e anzianità, con un pesante sbilanciamento verso le fasce più costose, comperiamo mezzi e sistemi in giusta quantità – e, dobbiamo dire, anche di ottima qualità – che tuttavia non siamo in grado di utilizzare al meglio perché non possiamo permetterci di fare il necessario addestramento, ci manca il carburante per operare e non abbiamo i fondi per assicurarne la manutenzione. Il risultato è che il numero di piloti effettivamente in grado di affrontare una missione operativa è molto inferiore al necessario, le navi trascorrono la maggior parte del tempo al molo, i corazzati restano mestamente nei loro ricoveri.
Degrado
Molto responsabilmente le poche risorse disponibili vengono concentrate sui reparti e sui sistemi che oggi possono essere impiegati nelle missioni di mantenimento della pace (peace-keeping) che vedono impegnate le nostre forze armate. Se ciò, da un lato, garantisce che uomini e donne in Afghanistan come in Libano ed altrove operino efficacemente e, per quanto possibile, in sicurezza, dall’altro costringe ad una sostanziale inattività le unità che non trovano utile impiego nell’attuale quadro strategico. Questo processo non può che condurre a un rapido e difficilmente recuperabile degrado delle capacità operative che si potrebbero utilizzare in altri scenari.
Anche la decisione responsabile, assunta negli ultimi due anni, di compensare, ancorché in misura assai ridotta, i drastici tagli dei fondi per l’esercizio con un incremento dei fondi semestrali per le missioni, si rivela di limitata efficacia, sia perché il ministero dell’economia eroga tali fondi dopo mesi di estenuanti battaglie per superare le difficoltà burocratiche, sia per la natura “eventuale” di questi fondi: nel momento in cui le missioni dovessero essere ridimensionate, come una componente fondamentale dell’attuale maggioranza vorrebbe, tali risorse verrebbero meno, lasciando davvero le forze armate nell’impossibilità di assicurare le necessarie capacità operative.
Come ho avuto già modo di osservare in sede di audizione parlamentare, lo strumento militare, essenziale per la gestione di un’efficace politica estera, verrebbe trasformato in uno ‘stipendificio’, una sorta di ammortizzatore sociale privo di una significativa utilità.
Scelte necessarie
Che fare, dunque? Non c’è che un modo: se le risorse finanziarie per la Difesa non possono crescere, occorre riqualificarle drasticamente, riducendo dal 60 al 50% del totale le spese per il personale e trasferendo la differenza alla quota ‘esercizio’, per riportarla ad un virtuoso 23/24% del totale. Per ottenere un simile risultato bisogna intervenire con determinazione sui numeri, trasferendo ad altre amministrazioni, che sono in sofferenza, ma hanno finora tenacemente rifiutato tale misura, personale in esubero, che appartiene alla fascia di età che va dai 45 ai 55 anni (risultato dei reclutamenti massicci effettuati a cavallo del 1980-82) e con provvedimenti di ‘esodo agevolato’.
Anche sugli organici complessivi è possibile agire: una riduzione del 20% del personale, attuato privilegiando le unità operative e intervenendo drasticamente sugli enti logistici e addestrativi (e azzerando l’arcaica e oggi inutile struttura territoriale), integrandoli in senso interforze, paradossalmente migliorerebbe la prontezza operativa e le capacità dello strumento nel suo complesso. Si creerebbero inoltre spazi per reclutare giovani, mantenendo il mix di età indispensabile per l’organizzazione militare.
È ovvio che queste misure presuppongono una ferma volontà di riforma per superare le inevitabili resistenze e richiedono altresì, una tantum, un certo sforzo finanziario, che peraltro verrebbe recuperato nel giro di pochi esercizi.
La Difesa italiana aveva avviato una riforma radicale alla fine degli anni ’90, in anticipo rispetto agli altri più importanti paesi europei; purtroppo la naturale resistenza al cambiamento ha fortemente attenuato l’impulso della riforma, ed oggi dobbiamo constatare che Francia e Gran Bretagna hanno realizzato, dal punto di vista organizzativo, progressi che per noi sono ancora solo sulla carta, quando ci sono.
Occorre uscire dalle politiche puramente declaratorie e dalla ricerca di compromessi all’italiana, che non scontentino nessuno: le nicchie di inefficienza devono essere eliminate, il che creerà malumori e insoddisfazione. Non ci sono però alternative, se non vogliamo che il nostro rango internazionale venga compromesso.
Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa, è consigliere del Ministero degli esteri per gli aspetti militari e consigliere scientifico dello Iai.